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Yona Friedman e l’architettura mobile

Un'architettura in grado di comprendere le trasformazioni che caratterizzano la “mobilità sociale” e basata su infrastrutture che interpretano e si adattano alle esigenze sociali, di chi le vive. L’edificio deve erigersi e rispecchiare le esigenze dei suoi abitanti e non viceversa.

Questa è l’idea primordiale di Yona Friedman, ebreo, perseguitato, profugo e rifugiato.


Nato a Budapest nel 1923 ha vissuto i rastrellamenti nazisti; trasferitosi successivamente in Israele e approdato nel 1957 a Parigi, città in cui attualmente risiede.

Divenuto celebre tra la fine degli anni cinquanta ed i primi anni sessanta durante gli anni dell’architettura delle “megastrutture”, nel 1958 concepì il “Manifesto dell’Architettura Mobile”. La teoria dell’architettura mobile, ha messo in discussione la visione modernista secondo cui sono gli abitanti a doversi adattare a un edificio e non viceversa. Dalla fine degli anni sessanta fino ai nostri anni ha vissuto nel silenzio. Attraversando varie epoche architettoniche tra cui il postmoderno, Friedman è stato rivalutato dall’arte e poco considerato dall’architettura.


Il MAXXI fino al 29 ottobre ospita una mostra a lui dedicata. Attraverso modelli, disegni e installazioni racconta lo sviluppo di questa teoria e, allo stesso tempo, esplora il tema dell’improvvisazione come “possibilità” nel mondo dell’architettura, da lui teorizzata sin dagli anni ‘70.


Oggi, all’età di 94 anni, è definito con l’appellativo di architetto "utopista".

Ed è proprio la sua attenzione al sociale, al volersi adattare , al voler dire “necessità fa virtù” che lo porta ad una vera e propria consacrazione in cui l’utopia è divenuta profezia.


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